Un antico buco nero “dormiente” svela nuovi misteri sull’universo primordiale: il contributo dell’Università dell’Insubria e di Alessandro Trinca

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Alessandro Trinca
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Un team internazionale di scienziati, grazie all'utilizzo del telescopio spaziale James Webb (Jwst), ha identificato uno dei buchi neri supermassicci più antichi e imponenti mai osservati. Questo colosso cosmico, situato in una galassia compatta di quasi 13 miliardi di anni fa, ha una massa pari a 400 milioni di volte quella del Sole e risale a meno di 800 milioni di anni dopo il Big Bang

La peculiarità che lo distingue è il suo stato di quiescenza: a differenza dei quasar, che brillano grazie all’intensa attività di accrescimento, questo buco nero sta inglobando gas a un ritmo cento volte inferiore al limite teorico massimo, risultando praticamente inattivo.

È il primo buco nero dormiente mai rilevato durante l’epoca della reionizzazione, una fase cruciale dell’evoluzione dell’universo primordiale in cui il gas intergalattico è stato ionizzato dalla radiazione delle prime sorgenti cosmiche. Un altro aspetto straordinario è il rapporto tra la massa del buco nero e quella della galassia ospite: il 40% della massa stellare totale, un valore mille volte superiore a quello tipico dei buchi neri nelle galassie moderne. Questo squilibrio indica una rapida crescita iniziale, che ha privato la galassia del gas necessario alla formazione di nuove stelle.

La ricerca, pubblicata sulla rivista Nature, è stata condotta dall’Università di Cambridge, con il contributo di importanti istituzioni italiane, tra cui l’Istituto nazionale di Astrofisica (Inaf), la Scuola normale superiore di Pisa, la Sapienza Università di Roma e l’Università dell’Insubria.

Alessandro Trinca, ricercatore post-doc del Dipartimento di Scienza e alta tecnologia dell'ateneo ed ex membro dell’Inaf, ha dato un contributo fondamentale. 
«Questa scoperta suggerisce che i buchi neri supermassicci crescano attraverso episodi brevi ma intensi, seguiti da periodi di dormienza - spiega Trinca -. Tali processi sono essenziali per spiegare come abbiano raggiunto masse così elevate nelle prime fasi dell’universo».

Lo studio si basa sui dati del programma Jades - Jwst Advanced Deep Extragalactic Survey, che sfrutta le capacità del telescopio James Webb per osservare oggetti estremamente distanti e poco luminosi. 

«Questa scoperta segna un nuovo capitolo nella comprensione dei buchi neri primordiali - commenta Stefano Carniani, ricercatore della Scuola normale superiore di Pisa -. Grazie al James Webb, possiamo ora studiare oggetti che finora erano rimasti invisibili, completando il quadro dell’evoluzione galattica».

Il contributo dell’Università dell’Insubria e di Alessandro Trinca a questa importante scoperta evidenzia il ruolo di primo piano della ricerca italiana nel panorama astrofisico internazionale. Con il supporto del Jwst gli scienziati potranno scoprire altri buchi neri dormienti, aprendo nuove prospettive sullo studio dell’universo primordiale e sulla formazione delle strutture cosmiche.

Data ultimo aggiornamento: 18 Dicembre 2024