Perché il 25 aprile è il giorno della libertà e della democrazia: una lezione di storia per tutti

20 Aprile 2021
25 aprile

«Cari studenti e care studentesse, mi rivolgo soprattutto a voi: ci sono delle date che ogni anno devono essere ritrovate nella nostra memoria, ripensate, approfondite. Il 25 aprile è tra queste»: da parte del rettore Angelo Tagliabue l’invito a rileggere una pagina fondamentale della nostra storia, con le parole e la spiegazione del professore Insubria Antonio Maria Orecchia.

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Nel secolo dei nostri padri e dei nostri nonni – il «secolo della paura», come lo definì Albert Camus, o il «Secolo delle tenebre», per richiamare un famoso saggio di Tzvetan Todorov – la libertà e la democrazia si affermarono dopo scontri durissimi, lotte fratricide e milioni di morti. E oggi, in questo scorcio del XXI secolo, forse più che mai si sente il bisogno di una reale e sincera pacificazione, perché queste giornate appartengono, o dovrebbero appartenere, a tutti gli italiani. Ma pacificazione significa innanzi tutto provare a capire cosa sia successo in quei momenti terribili della nostra Storia. E, allora, si deve tornare innanzi tutto alle 19.42 dell’8 settembre 1943, quando l’Eiar, l’Ente italiano audizioni radiofoniche, annunciò un proclama del capo del governo, sua eccellenza il maresciallo Pietro Badoglio:«Il governo italiano, riconosciuta la impossibilità di continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi di qualsiasi altra provenienza».

Erano dunque le 19.42 dell’8 settembre del 1943 quando il maresciallo Pietro Badoglio, capo del governo da 45 giorni, annunciava l’armistizio alla popolazione italiana in questi termini a dir poco ambigui e infelici: cosa significava infatti reagire «ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza?». E infatti, certo non per caso, la popolazione – narrano le cronache – rimase sbalordita nella vana speranza che tutto fosse finito. L’Italia era in guerra da tre anni, ma il bluff della guerra parallela voluta da Benito Mussolini e dal Re Vittorio Emanuele III, disastrosa su tutti i fronti, dalla Francia ai Balcani, dall’Africa alla Grecia e fino all’Unione Sovietica, aveva distrutto il Paese e portato allo stremo i cittadini, se oltre ai morti, ai bombardamenti quotidiani e agli sfollamenti, il razionamento del cibo prevedeva un uovo a persona ogni 15 giorni, 80 grammi di carne e 60 di salumi alla settimana, 2 chili di pasta e 1,8 di riso al mese. Un livello di vita semplicemente insostenibile.

L’Italia era la prima potenza dell’Asse a capitolare. Era la più debole, ma anche la culla del fascismo, e quindi la sua capitolazione aveva un forte significato politico e simbolico, oltreché militare. L’8 settembre fu dunque uno spartiacque, ma la guerra non finì e l’Italia sprofondò in una tra le pagine più buie della sua storia. Il Re e Badoglio, temendo la vendetta tedesca, abbandonarono la capitale e scapparono a Brindisi; l’esercito, lasciato senza ordini, si sfaldò; i soldati fuggirono cercando di tornare a casa, le truppe nei territori d’occupazione furono abbandonate alla mercé del nemico. L’immagine dell’8 settembre fu quella di una nazione allo sbando, dello sfascio delle istituzioni, di un popolo vinto, senza una guida, senza un esercito, senza idee e dignità.

Come è noto, alcuni storici – da Renzo De Felice a Ernesto Galli della Loggia – hanno parlato di «Morte della Patria» per dare il senso di quello che stava succedendo, della rinuncia morale della Nazione. desso toccava all’Italia diventare il teatro di scontri tra eserciti, e tra eserciti e popolazione civile. Il Paese si trasformava in pochi giorni in un campo di battaglia: invaso a sud dagli alleati, a nord dai tedeschi. Con il Re e il governo fuggiaschi in Puglia sotto la tutela degli alleati, e a nord e al centro i plenipotenziari di Hitler a comandare il nuovo governo di Mussolini, a capo di una nuova sedicente repubblica – la Repubblica Sociale Italiana – voluta dai nazisti e accettata da Mussolini stesso. Una repubblica, come ha scritto Claudio Pavone, che «non avrebbe in realtà potuto durare un solo giorno senza il sostegno tedesco». Ma, soprattutto, una scelta – quella di costituire la Repubblica Sociale – che pure Renzo De Felice, il più noto biografo di Mussolini, ammise fosse all’origine della guerra civile perché aveva diviso profondamente gli italiani e scavato solchi di odio tra loro.

Da qui, io credo, si deve partire per capire il significato profondo del 25 aprile. Questo era infatti l’inevitabile finale di vent’anni di dittatura, di una politica razzista e antisemita, dell’asservimento dell’Italia alla Germania nazista. E di una guerra sbagliata che aveva diviso gli italiani. Corrado Alvaro lo descrisse in modo crudo nell’assai noto volume «L’Italia rinunzia» sin dal 1945: «Gran parte d’Italia si augurò dal primo giorno della guerra la disfatta […]. Gli italiani […] sperarono sempre più ardentemente nella sconfitta, l’aiutarono, la predicarono: eppure avevano i figli in Africa, nei Balcani, in Russia. Se v’è una condizione morale tragica per il cittadino, questa lo fu».

Nondimeno, il passo verso la guerra civile era breve. Perché, tornando agli uomini che vissero quel periodo e sempre per fare un solo esempio, anche Dante Livio Bianco definì uno spettacolo «triste e umiliante» lo sfacelo della sua IV Armata a Cuneo senza nemmeno aver visto il nemico, con centinaia di uomini che in disordine si precipitavano fuori dalle caserme. Ma, diceva Bianco: «mai come in quel giorno abbiamo capito cos’è e cosa vuol dire l’onor militare e la dignità nazionale».

Come emerge da queste testimonianze, allora, l’8 settembre non fu la morte della Patria, ma fu la morte dell’Italia fascista, di una certa idea di Patria fascista. E l’inizio del riscatto e anche purtroppo, della guerra civile e di liberazione. Certo: come ovvio e prevedibile, di fronte al disastro di un Paese spaccato a metà, lasciato senza guida, senza istituzioni e allo sbando, molti cercarono solo di sopravvivere alla fame, agli stenti e ai bombardamenti. Altri, invece, aderirono allo Stato fantoccio servo della Germania nazista. È difficile comprendere le ragioni per cui molti decisero di appoggiare una Repubblica sommersa dal discredito e vista come una creatura dipendente dai tedeschi. A parte infatti i seppur pochi intellettuali – Giovanni Gentile, Filippo Marinetti, Arrigo Serpieri, per citarne alcuni – che ambivano a ricoprire un ruolo “nazionale”, un conto erano naturalmente i fascisti storici, i gerarchi, gli squadristi o i fanatici mossi da una fede fascista cieca alla ricerca della vendetta. E un discorso specifico dovrebbe essere fatto per i sadici, i delinquenti e criminali di professione: si pensi solo alle bande di torturatori presenti in tutta Italia, dalla Koch a Milano a quelle di Gino Bardi e Guglielmo Pollastrini a Roma, fino alla banda di Mario Carità a Firenze. Una vergogna che uno Stato degno di questo nome non potrebbe tollerare.

Eppure, ad altri non si possono oggi, volgendo lo sguardo su quel disastro, non riconoscere anche motivazioni di tipo ideale e patriottico. Perché a condividere quella esperienza furono anche molti giovani e giovanissimi nati e cresciuti nel culto del Duce, imbevuti e forse frastornati da una insopportabile propaganda e da una retorica vuote di un qualsiasi contenuto decoroso, ma che essi non potevano capire. Motivazioni, sia chiaro, di un malinteso amor di patria, cui si aggiungeva un altrettanto malinteso senso dell’onore perduto. Alcuni pensarono, insomma, anche in buona fede, di difendere l’onore dell’Italia infangato dal tradimento del Re, ma altri appoggiarono quel regime totalitario e razzista, voluto e mantenuto da Hitler, per convenienza ideologica e pratica.

Ed è in questo quadro allora, che dopo capito cosa fosse la «dignità nazionale» ricordata da Dante Bianco, arrivò anche il riscatto. Perché proprio l’umiliazione dell’8 settembre e i mesi successivi fecero nascere in molti italiani una voglia di rivincita, la volontà di ridare dignità al popolo italiano e costruire un paese migliore. Leo Valiani, un protagonista di quella stagione, non poteva non ribadirlo: «malgrado le enormi distruzioni, non assistiamo alla fine del nostro Paese, ma alla sua rinascita rivoluzionaria». Un popolo, scriveva ancora in un passo assai intenso, «che non si rassegna ad essere espulso dalla storia».

Quel giorno infatti nasceva la Resistenza: mentre i primi partigiani raggiungevano le montagne per iniziare a combattere – e tra questi anche Primo Levi, catturato il 13 dicembre – già il 9 settembre in via Adda, a Roma, si costituiva il Comitato di Liberazione Nazionale: «nel momento in cui il nazismo tenta di restaurare in Roma e in Italia il suo alleato fascista – è il primo comunicato – i partiti antifascisti si costituiscono in Cln per chiamare gli italiani alla lotta e alla resistenza e per riconquistare all’Italia il posto che le compete nel consesso delle libere nazioni».

Eccole allora le tante motivazioni alla base della Resistenza: certo non mancava chi voleva vendicare un congiunto caduto; o la volontà di ribellarsi ai soprusi che portava a rispondere con la violenza alla violenza del nazifascismo. Ma profonde erano anche le ragioni ideali: un patriottismo che si traduceva nella volontà di non cedere al dissolvimento della nazione; la reazione per salvare il Paese dal crollo totale; la volontà, soprattutto per i militari, di restare fedeli al giuramento di fedeltà prestato al Re. E poi, le convinzioni politiche: e certo, a fianco di chi sperava in una futura rivoluzione socialcomunista vi era chi voleva costruire un paese sull’esempio delle democrazie occidentali.

Ora. È necessario evidenziare subito che non fu una stagione facile, non senza contrasti anche all’interno dello stesso pianeta antifascista. La Resistenza non fu una festa paesana, ma una realtà dura e drammatica, che conobbe anche debolezze ed episodi tragici – si pensi a Porzûs – e scelte magari non da tutti condivise – si pensi a via Rasella – come del resto non poteva non essere in una vicenda umana di quella gravità. Ma riconoscerli non significa sminuire in alcun modo il giudizio sul valore fondante di quella esperienza della nuova Italia democratica.

Perché tutti, in nome della libertà, si rivoltarono contro un potere considerato illegittimo e illegale, in Italia e in Europa. Qui si deve rintracciare – io credo – il profondo significato di quello che accadde: la Resistenza alla sopraffazione come diritto e come dovere quando la decisione da prendere, come in quei mesi, non era tra la pace e la guerra, ma tra la resa e la lotta. La Resistenza e l’insurrezione considerata come un diritto e un dovere nell’esercizio della legittima difesa da regimi tirannici iniqui e illegali perché fondati sull’arbitrio e sulla prevaricazione.

Sui numeri si discute da oltre mezzo secolo. E se la zona grigia, coloro che non si schierarono, ci fu, come è naturale in frangenti a tal punto drammatici, come si può al contempo pensare a una fenomeno così importante, destinato a crescere e durare 20 mesi, senza il supporto ampio e attivo di una vasta area della popolazione? Nessun altro paese occidentale occupato conobbe un fenomeno di Resistenza, appunto, vasto come quello italiano: non i francesi, non i tedeschi, non i belgi o gli olandesi. Ma la resistenza non fu solo dei combattenti, che da poche migliaia si gonfiarono fino almeno a 250.000 uomini alla vigilia dell’insurrezione.

Il carattere “nazionale” della resistenza infatti non è dato dal numero, ma dal fatto che l’esercito ribelle, nato dal basso almeno in parte spontaneamente, era una sorta di miniatura della comunità intera poiché a combattere vi erano tutte le categorie sociali ed economiche che formano un popolo: uomini e donne, operai e contadini, aristocratici e professionisti, studenti e professori, sacerdoti e industriali. Vi erano repubblicani ma anche monarchici. E nel Comitato di Liberazione Nazionale ebbero pari dignità comunisti, liberali, democristiani, socialisti e azionisti. Uniti nel combattere i tedeschi e i fascisti, ma liberi di dare significati diversi al loro antifascismo sia in sede politica sia, successivamente, storiografica.

Quei venti mesi successivi furono terribili perché, in fondo, che si confrontarono due idee diverse della Patria, due idee diverse del futuro del nostro popolo, tra chi sapeva di dover ricostruire tutto, e chi seguitava considerare come vera patria quella autoritaria e violenta del fascismo. Violenza, torture, uccisioni: italiani che sparavano contro italiani in mezzo ai tedeschi e agli alleati. La linea del fronte che si sposta da sud a nord tra la linea Gustav e la linea Gotica, le stragi dell’Appennino tosco-emiliano, a Marzabotto, a Sant’Anna di Stazzema e molte altre. I tedeschi che spogliano il paese e la popolazione che combatte e cerca di sopravvivere.

Il 25 aprile 1945 la guerra finì. L’Italia fu liberata dagli Alleati, è ovvio, ma il contributo dei partigiani fu tutt’altro che trascurabile, come scrisse, per fare un solo esempio, il capo delle forze armate tedesche Albert Kesserling nelle sue Memorie di guerra: «A partire da quell’epoca (giugno 1944) la guerra partigiana diventò per il comando tedesco un pericolo reale la cui eliminazione era un obiettivo di importanza capitale […]. La lotta contro le bande doveva venir posta tatticamente sullo stesso piano della guerra al fronte. […] Le migliori truppe dovevano venir impegnate nella lotta contro i partigiani».

Il 25 aprile la guerra finì. L’Italia aveva pagato un prezzo enorme: oltre ai danni materiali, 450 mila morti e un milione e 300 mila ragazzi tra i 20 e i 35 anni inchiodati campi di prigionia in mezzo mondo – dall’Uganda, all’Australia, al Texas, in Unione Sovietica – in chissà quali condizioni. Ma l’Italia poteva finalmente ripartire. Allora, oggi che il Ventesimo secolo è finito, è giunto il tempo di iniziare a discutere del nostro passato senza barriere ideologiche. Certo non è facile, perché i nostri padri e i nostri nonni lo hanno vissuto il Ventesimo secolo, con tutte le loro passioni, i drammi e le lacerazioni. E quindi il Novecento è ancora vicino a noi e ne sentiamo emotivamente tutto il peso.

Non si tratta allora di cercare una sorta di impossibile “memoria condivisa”, perché ognuno – da qualunque parte abbia combattuto – ha il diritto di tenersi la sua memoria e quella della sua famiglia e perché, pare ovvio, non si possono “eliminare” o annacquare pezzi di storia per raggiungere una sorta di compromesso che vada bene a tutti: i fatti possono essere ignorati o piegati a esigenze contingenti e strumentali, ma non cessano di esistere. Tuttavia l’impossibilità di una “memoria condivisa” non esclude, appunto, la necessità di una pacificazione che, a sua volta, «esige il senso di umana pietà per tutte le vittime della guerra, da qualunque parte abbiano combattuto», come sostenne, tra i molti, Norberto Bobbio. Un senso di umana pietà che va ben al di là del perdono.

E pacificazione significa anche comprendere cosa sia successo in quella primavera del 1945, a guerra appena terminata: come ha scritto Sergio Luzzatto, la guerra civile italiana era stata lunga e feroce e non ci si poteva illudere che si chiudesse in modo indolore. A parte gli episodi criminali, che come tali devono essere giudicati, la caccia all’uomo delle settimane successive, per vendette personali e contro criminali di guerra piccoli o grandi, significava anche voler chiedere il conto degli orrori della Repubblica Sociale italiana, uno Stato fantoccio asservito ai deliri del Fürher. E, ancora, chiedere il conto di vent’anni del regime di Benito Mussolini, basato sul sopruso, sulla violenza e sull’oppressione, iniziato ai tempi dello squadrismo e terminato nel luglio del 1943.

Forse, partendo da questi presupposti, si può capire – non giustificare, perché la guerra era finita, e le armi dovevano essere deposte – il sovrappiù di rabbia e di odio: «nell’Italia della Liberazione la vendetta era tanto assaporata quanto per un quarto di secolo era stata sospirata la giustizia». E allora, al di là delle passioni personali, comprendendo le ragioni di tutti e la pietà per i morti – e naturalmente senza considerare indecorosi calcoli politici – è necessario ancora oggi affermare che pacificazione non significa poter equiparare le due parti in conflitto e le loro scelte morali. Anzi.

Nulla può, contro l’andamento della Storia, il fervore tribunalizio di certi revisionismi o di certe agiografie, da una parte e dall’altra. E nulla può, uguale e contrario, un certo buonismo storiografico, che rinuncia a distinguere tra vincitori e vinti, che rinuncia a spiegare il senso delle alternative in lotta. Anzi, l’incapacità di dare a ciascuno il suo favorisce un’identità melliflua, e priva la democrazia delle sue categorie di giudizio e della sua stessa ragion d’essere. Perché, come accennato, la libertà e la democrazia si sono affermate nel corso dei due secoli attraverso lotte durissime, come quella combattuta della Resistenza. E di esse, della libertà e della democrazia, godono anche gli antichi nemici, non per una graziosa concessione, ma per il sanguinoso uso della forza. Tale è l’andamento della storia e non è edulcorabile.

Per quanto si possa e si debba riconoscere la “buona fede” di alcuni, allora, la Storia deve giudicare il progetto per cui si combatteva, non la moralità dei singoli: non fu la stessa cosa combattere e morire per una causa o per l’altra, soprattutto quando alla base delle due cause vi erano approdi irrinunciabili e assoluti. Cosa sarebbe successo, infatti, se avesse trionfato il «Nuovo Ordine Europeo» annunciato da Hitler con grande enfasi propagandistica nel luglio del 1940 e di cui tutti erano a conoscenza? Un’Italia, un’Europa e un nuovo mondo gerarchico e autoritario, con il suo fondamento di razzismo, con un espansionismo fatto di genocidi, teso a sottomettere in schiavitù intere popolazioni e ad eliminare la libertà e l’uguaglianza, che nazismo e fascismo consideravano come le degenerazioni del mondo moderno prodotte dalla Rivoluzione francese.

Dopo oltre settant’anni, allora, i confini della guerra civile italiana dovrebbero essere nitidi per chiunque, e non dovrebbero essere possibili malintesi su quale campo scegliere o, perlomeno, sulle ragioni reali dei campi in lotta: l’umanità e il diritto da una parte; la disumanità e l’abuso dall’altra. Nondimeno, naturalmente, come sempre, di fianco alla storia di un bene vi sono anche sfumature, lati oscuri, ombre ed errori, che nessuno minimizza o tace: i libri di storia, del resto, da oltre trent’anni hanno abbandonato le visioni agiografiche e mitizzanti della Resistenza.

L’andamento della Storia non è edulcorabile: dalla Resistenza emerse una nuova classe dirigente capace di costruire un’Italia libera e democratica e scrivere una Costituzione della quale beneficiarono anche gli sconfitti, coloro che avevano difeso la dittatura. E in Assemblea Costituente, a redigere quel testo, sedevano tutti: democristiani, azionisti, liberali, comunisti, socialisti, anche monarchici e qualunquisti; e poco dopo, in Parlamento, anche coloro che si definivano eredi del fascismo. E poi una Europa unita e pacificata, in cui oggi, dopo oltre 70 anni, tre generazioni vivono in pace. Un fatto mai verificatosi nella secolare storia del continente.

Come accennato, non fu la stessa cosa combattere e morire per una causa o per l’altra, perché poi tutto si potrebbe ridurre a una domanda: cosa sarebbe successo se avessero vinto gli altri? La risposta è semplice, e il giudizio della Storia inequivocabile: vinsero i giusti, e ricostruirono l’Europa e l’Italia della democrazia e della pace.

 

ANTONIO MARIA ORECCHIA

(Professore del corso di Storia e storie del mondo contemporaneo)

Ultima modifica: Martedì, 11 Luglio, 2023 - 18:13